El Olor de la Guayaba

Questo lavoro di Cristina Ansoldi, nato inizialmente per essere collocato all’interno del blog MacAdam, trova qui – dal mio punto di vista – maggior respiro. A voi la lettura.

di Cristina Ansoldi

“Cominciai a scrivere per caso… poi caddi nella trappola di continuare a scrivere e quindi nell’altra trappola che niente mi piaceva di più al mondo che scrivere.”[1]
Gabriel García Márquez – Gabo

Sono passati numerosi anni da quando mio padre – venezuelano per adozione e appassionato lettore di Gabriel García Márquez – mi regalò un libricino intitolato “El Olor de la Guayaba”[2]. Molto saggiamente accompagnò il dono con un barattolo di marmellata… di guayaba naturalmente! Con quell’unico dono, tre diversi sensi vennero stuzzicati contemporanemanete: l’olfatto, il gusto e quello più sottile del piacere che si trae da una buona lettura. Qust’ultimo gusto, tutto amalgama e riunisce in un’unica sensazione gradevole.Il libro, come suggerisce il sottotitolo, è una lunga conversazione tra García Márquez e Plinio Apuleyo Mendoza, giornalista, scrittore e amico di “Gabo”. È una specie di intervista allo scrittore colombiano, generalmente restio a concederne, sull’opera, sulla formazione letteraria e sulla genesi dei suoi scritti. Quindi, ricordi, impressioni, dati biografici, commenti sono riportati direttamente senza interpretazioni o supposizioni. Sulla copertina c’è lui, Gabo, con la sua faccia arguta e aperta, tipica di uomo del Caribe, così comune eppure così singolare e inconfondibile. Unica.

Tra le pagine è celata la spiegazione del titolo: “Odor di guayaba”. García Márquez ce la presenta rendendo omaggio a un altro grande, Graham Greene, che gli “insegnò nientemeno che a decifrare il tropico”. Infatti, il Nostro sostiene che “è una gran fatica separare gli elementi essenziali per fare una sintesi poetica di un ambiente che (l’autore) conosce fin troppo, perché sa tanto che non sa da dove iniziare”. Greene risolse il problema usando “pochi elementi sparsi, però uniti da una coerenza soggettiva molto sottile e reale. “Con questo metodo”, afferma Gabo, “si può ridurre tutto l’enigma dei tropici alla fragranza di una guayaba imputridita”.

Verissimo. Quante volte tutti noi abbiamo sperimentato come luoghi, persone e fatti siano impregnati di profumi e fragranze particolari. L’odore di fagioli mi riporta al refettorio scolastico della mia infanzia, un’acqua di colonia fiorita è il profumo inconfondibile dell’abbraccio di una persona cara che oggi non è più. Altrettanto indimenticabili le essenze di alcune città visitate: effluvi di cibi tipici, di spezie, di fiori, di gente, di smog. A volte basta anche solo uno degli elementi di quel cocktail, una parte per il tutto, per far riaffiorare alla mente una persona, un evento, una vacanza, in modo così vivido che mille parole non potrebbero fare altrettanto. Ecco perché l'”odor di guayaba” di García Márquez è una sintesi in cui c’è tutto il profumo, il colore, il calore, il senso della vita e della morte del tropico latino-americano.

Poco tempo fa Fabio, durante un seminario ci ha domandato cosa fosse per noi l’ispirazione: io passo la domanda a García Márquez e sorrido tra me e me, perché lui non parte da un concetto, da un’idea – come invece potrebbe succedere alla maggior parte degli algidi autori europei – ma si muove da immagini concrete. Gli spunti sono legati alla sua esperienza personale; anche quella di giornalista. L’illuminazione è quasi sempre derivante da un’immagine che spesso ha dormito latente nel suo subconscio: ricordi d’infanzia, brevi e repentini come fulmini nella sua memoria. “Cent’anni di solitudine” parte proprio dall’immagine di se stesso, bambino, a cui il nonno materno, nel torrido paesino natale di Aracataca, fece conoscere la meraviglia del ghiaccio. Un ghiaccio esibito come una curiosità da circo.

Spesso mi sono ritrovata a sorridere dei consigli di Gabo sulla scrittura: gli stessi impartiti da Fabio in MacAdemia. Il cerchio si chiude.

Così, leggo che la prima frase di un libro è fondamentale. Gabo spiega: “La prima frase può essere il laboratorio per stabilire molti elementi dello stile, della struttura, e persino della lunghezza del libro”. Regola MacAdemia: massima cura nell’incipit – occhio alle prime cinque righe! -.

Di Hemingway asserisce che non è stato tanto un grande romanziere, quanto un gran novelliere. “Un racconto, come l’iceberg, dev’essere sostenuto dalla parte che non si vede: nello studio, nella riflessione, il materiale riunito e non utilizzato direttamente nella storia.” Sicuramente gli allievi di MacAdemia ancora una volta troveranno in questa affermazione molte delle raccomandazioni dei nostri insegnanti.

E poi ancora sul dialogo si legge: “Il dialogo in lingua castigliana[3] risulta falso. Ho sempre detto che in questa lingua c’è una grande differenza tra dialogo parlato e dialogo scritto. Un dialogo in castigliano, che è buono nella vita reale, non è necessariamente buono nei romanzi”. Così Gabo ci confessa la sua scarsa simpatia per il dialogo in generale. I Macademici ben conoscono la difficoltà di creare dialoghi sensati, efficaci e funzionali alla storia che stanno scrivendo, senza cadere in stereotipi o peggio ancora in dialoghi prolissi e scontati, da telenovela, che non fanno “avanzare” la narrazione.

Più avanti leggiamo: “il Romanzo è una rappresentazione cifrata della realtà… la realtà che si tratta in un romanzo è differente dalla realtà della vita, sebbene si basi su di essa. Come succede nei sogni.” Senza dubbio García Marquez ha un modo tutto suo di trattare la realtà: il suo è stato definito “realismo magico”. L’intervistatore giustamente osserva: “ho l’impressione che i tuoi lettori europei siano in grado di avvertire la magia delle cose che racconti, però non vedono la realtà che le ispira”. Gabo fa notare che la vita quotidiana in America Latina è piena di cose straordinarie. Chi è vissuto abbastanza a lungo in Sud America non può che condividere questa affermazione. La gente del Caribe vive sospesa tra varie dimensioni, come se tutto convivesse in un’unica realtà che ha le caratteristiche del sogno e della coincidenza fatale che non può essere annientata. Ecco che i personaggi più fantasiosi di “Cent’anni di solitudine”, come Mauricio Babilonia, sempre accompagnato da un nugolo di farfalle gialle e Remedios la bella, che assurge al cielo come la Vergine, tra uno svolazzamento di lenzuola candide, sono sembrati al lettore sudamericano cose abbastanza “normali”.

Per lo scettico e pragmatico lettore europeo, senza questa capacità naturale di coniugare realtà parallele, Gabo spiega come sono nati questi personaggi e cita gli episodi di vita vera e vissuta che gli hanno fornito quegli elementi apparentemente fantastici che così bene li hanno caratterizzati, tanto da renderceli indimenticabili.

[1] Le traduzioni riportate nell’articolo sono state fatte da me. Citazione da “Odore di guayaba”
[2] “Odor di guayaba”: conversazioni con Gabriel Garcia Marquez / Plinio Mendoza; traduzione di Laura Brizzolara e Luisa Pranzetti. – Milano: A. Mondadori, 1993. – 157 p.; 20 cm. – (Bestsellers saggi; 89)
[3] Per lingua castigliana s’intende l’ispano-americano.

8 thoughts on “El Olor de la Guayaba”

  1. Alessandra, grazie per la generosità,sei sempre prodiga di incoraggiamento . comunque se ti piace Garcìa Màrquez vale davvero la pena di leggere “odor di guayaba”.

    kitty

  2. Kitty, sei fantastica! 🙂 Ci regali sempre emozioni e spunti di riflessione interessanti.
    E come si fa a non leggere il libro che hai recensito? 🙂
    Un abbraccio e buona domenica,
    Alessandra

  3. Penso che tu faccia parte di quella sparuta shiera di persone che hanno il dono di amare a tal punto i libri e , di conseguenza, gli autori da diventarne quasi una loro parte. Solo così, infatti, si riesce a scrivere su di loro con competenza e originalità. Brava!

  4. Trovo la tua recensione “splendida”, perchè ha saputo cogliere l’essenza di un grande autore come Garcia Marquez, espressione di un mondo affascinante, travolgente, il mitico “Caribe”, commistione di sogno e realtà.

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