Daimon

Lo spazio nero – II – 33

Non so se io abbia o meno un daimon. Probabilmente, prima, dovrei anche scegliere quale definizione del medesimo adottare. Se però lo avessi – qualunque animale o entità fosse – probabilmente sarebbe stato lui, o lei, a suggerirmi di realizzare un seminario su “La bussola d’oro” di Philip Pullman.

Scrivo questo perché, nel mio continuo ricercare, molte volte mi capita di scoprire che le “novità” che vedo affiorare davanti a me in realtà affondano – magari inconsapevolmente – le proprie radici in qualcosa di molto più antico. O dimenticato.

Faccio una precisazione: negli anni sono riuscito ad accumulare una discreta quantità di libri che ho ripartito in tre blocchi principali divisi, anche territorialmente, fra loro. Quando ho un po’ di tempo a disposizione, mi piace andare nell’uno o nell’altro “deposito” per riscoprire testi che non leggo da anni o che non sono neanche sicuro che esistano.

Quando lessi per la prima volta la “La bussola d’oro”, il mio daimon rizzò – sempre che ce l’abbia – il pelo e nella mia testa cominciò a frullare l’idea che un libro di quel genere io l’avessi già incontrato sulla mia strada. Solo un’impressione e nulla di più. A distanza di parecchi anni, quando – grazie al cinema – il primo volume della trilogia di Pullman è diventato un fenomeno di ampia portata ho avuto il pretesto per ristudiarlo. Da quel lavoro è nato un seminario di lettura tenuto, presso l’Abbazia di Praglia, lo scorso 30 novembre 2008.

Eppure, nonostante tutto, rimaneva dentro di me quella vocina che mi tormentava sussurrandomi scenari non verificati e incredibili. Almeno fino a qualche giorno fa quando, sotto a una pila di altri libri degli anni ’70 del secolo scorso, si è materializzato “Daimon”, un romanzo di fantascienza scritto da Gianni Montanari.

Del suo autore – classe 1949; scrittore, traduttore e curatore, con altri, della rivista piacentina di fantascienza Galassia – conosco l’opera principale che però si colloca tra la fine del 1970 e i primi anni del 1980. Delle sue attività più recenti, a parte alcune traduzione e la cura di qualche antologia, so molto poco. Ciononostante, per qualche strano Spazio nero, Montanari e Pullman risultano collegati fra loro. Naturalmente, vale sempre la regola che “nulla è mai uguale a se stesso e contemporaneamente non può esserne differente”.

Per questo motivo ritengo interessante riportarvi la quarta di copertina della mia vecchia edizione originale del libro, datata 1978. Così potrete confrontarla con la quarta di copertina della vostra copia de “La bussola d’oro” la cui prima pubblicazione, invece, risale al 1996.

“Nell’atlante ideale delle cittadelle fantastiche, Labùla si colloca non-so-quando e non-so-dove. La vita vi scorre monotona lungo i binari del rito. Mastro Jockan, il signore di Labùla; Devi, la sua compagna; lo Storico, guardiano dell’ortodossia; i guerrieri e i servi; le Animalità sacre e profane: tutti i personaggi e le comparse di Labùla si muovono secondo un copione fisso, immutabile, codificato. Ma a un certo punto qualcosa si spezza nella trama immobile del Tempo, qualcosa accade. E allora tutto viene rimesso in discussione. In che misura l’ortodossia riflette la realtà? E quale delle molte possibili è la realtà. La volontà di comprendere di Mastro Jockan è umana ma trova il suo limite nella volontà «divina» di Daimon, il misterioso dio di questa cittadella-universo. Con Daimon Gianni Montanari ha costruito un trittico di vasto respiro sul possibile destino dell’umanità, riuscendo a far scaturire dall’iterazione della vita quotidiana a Labùla un quadro allucinante e angoscioso. I «generi» della fantascienza, della fantasy, e dell’utopia negativa si fondono in questa che è la più convincente prova italiana di letteratura fantasy-new wave. Ma il fantastico, in questo caso, non serve per evadere dal presente (o dal passato, o dal futuro), ma per riflettere, attraverso il filtro del passato e del futuro, proprio sul nostro presente.”

Buona riflessione.

Nel caso vi venisse voglia di leggerlo, ecco tutti i riferimenti: 

Daimon

di Gianni Montanari
Collana “La fantascienza”, volume 4
Longanesi & C.
Gennaio 1978

6 thoughts on “Daimon”

  1. Forse nel caso di Gianni Montanari il Daimon era concepito in modo differente, comunque è veramente curiosioso l’uso dello stesso nome. Sarebbe interessante capire come sia stato ricavato il nome Daimon.
    E poi chi ha mai detto che il fantasy e la fantascienza siano solo evasione e non riflessione su ciò che ci circonda? ciao

  2. @Federica: il termine daimon, come abbiamo visto anche al seminario, ha un’etimologia incerta che fa – secondo alcuni – riferimento al verbo “daiomai”, cioè “suddividere”. Potrebbe quindi essere inteso come elemento di suddivisione o di spartizione, anche con il significato opposto di attribuzione. Socrate lo considerava un “intermediario” del divino e non ne spiegava la natura. Altri lo riferiscono come origine del termine “demone”. E così via. Si tratta di un argomento complesso e affascinante sul quale, magari, torneremo ancora! Per quello che scrivi in relazione alla possibilità che ci offrono la fantascienza e il fantasy di riflettere sul nostro mondo e su ciò che ci circonda, non posso che essere d’accordo. Un caro saluto,

  3. C’è un concetto che mi sembra si possa estrapolare da entrambi i libri. Ovviamente parlo di Daimon avendo letto solo la quarta di copertina. Ma questa similitudine mi colpisce ugualamente. E’ l’idea che il nostro destino sia a noi immanente e vicinissimo. Solo che non lo vediamo, magari perché non guardiamo nella direzione giusta o nel mondo/universo/realtà giusto.

    Ho letto di recente un’intervista a Pete Townshend (storico chitarrista degli Who) in cui affermava che (cito non proprio testualmente) non è corretto dire che bisogna vivere la propria vita fino in fondo, ma che bisogna viverla fino in fondo dopo aver capito qual è questa vita.

    Beh, “caso” vuole che ultimamente ogni cosa che leggo abbia a che fare con questo motivo. E non so perché, ma questa cosa mi piace molto per cui cercherò di recuperare anche Daimon.

  4. La vita spesso ci sembra un copione già scritto ma se capita quell’evento che destabilizza e ci “sveglia”… chi dice che ci dobbiamo fermare per chiederci perché questo accade?

    La riflessione sul presente può derivare dal filtro del passato (e forse del futuro) ma il rischio è che sia proprio solo evasione.

    Non discuto Townshend come chitarrista, anzi, ma la filosofia di vivere la vita fino in fondo dopo aver capito qual è questa vita non la condivido. Così sembra più un aspettare Godot, col rischio di “non viverla” la vita. La vita fino in fondo la vivi scoprendo giorno dopo giorno quel che ti riserva, affrontando le paure, effettuando delle scelte, prendendo decisioni, fissando degli obiettivi. Ma è qualcosa che si compie passo dopo passo, vivendo, appunto. Non certo dopo aver capito dove andare. Siamo in continua evoluzione.

  5. @Federica e Barabba: l’argomento che Federica porta in discussione è di una complessità – a mio avviso – enorme. E proprio per questo molto interessante. “Dio non gioca a dadi” è una delle frasi – o intuizioni – di Einstein. Io la penso come lui – e come tanti altri -: il caso esiste solo in funzione della definizione che ne diamo. Più di una volta, come sa bene sempre Federica, mi è stato fatto notare l’uso personalissimo e personalistico che faccio di Nike. Eppure, con tutti i suoi limiti, quella è una definizione che mi sento di portare avanti.
    Concordo, però, anche con quanto afferma Barabba – bar Abbà, il figlio del Padre, è un appellattivo che calza a pennello con il pensiero che esprime – quando fa notare la continua evoluzione nella quale noi tutti ci troviamo. Quest’ultima, pone il problema della definizione di un punto di arrivo certo dal quale esaminare la realtà oggettiva delle cose. Ammesso che esista. “[…] dopo aver capito qual è questa vita […] è una frase per me troppo difficile da mettere in pratica: ci sono troppe variabili indipendenti e troppi elementi correlati fra loro perché io possa essere certo del suo – attezione al soggetto – significato.
    Ripeto: si tratta di un argomento veramente complesso e che richiederebbe motlo più spazio di questo. Chissà che la prossima puntate de Lo spazio nero non decida di affrontarlo. Se lo vorrete. Un caro saluto,

  6. Il “daimon” socratico fu equivocato per poter accusare Socrate stesso d’introdurre nuovi dei. Egli parlava di una voce interiore, di un richiamo costante alla vigilanza, al dubbio, rispetto al nostro modo di pensare (e agire) ai suoi risultati.
    Non poteva che andare così!
    Socrate è ancora oggi scomodo.

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