Lei era bellissima

Riprendono le pubblicazioni dei racconti dedicati alla Gioia. Questa volta tocca a Emanuela Fontana e al suo brano “Lei era bellissima”. Valgono le consuete regole già dichiarate per gli altri pezzi e quindi… buona lettura!

Lei era bellissima, di Emanuela Fontana – Parte Prima

Lei era bellissima.
Vederla e volerla era stato tutt’uno. Non credevo esistesse una creatura capace di far battere il mio cuore tanto forte al solo guardarla. Stavo lì, incapace di muovermi, la gente che passava e mi urtava intorno. Stavo lì inchiodato, gli occhi sul suo corpo sinuoso, cercando di domare la fiera speranza che m’aveva invaso e urlava al mio sangue che lei doveva essere mia, che non sarebbe potuto essere altrimenti.
Il corpo vibrava, preparandosi all’azione. Onde di coraggio sostenevano il mio animo spingendolo alla conquista, ma una fastidiosa rassegnazione intralciava la loro corsa: in fondo, che potevo fare io ? Non l’avrei mai raggiunta; così rimanevo immobile a guardarla e serravo i pugni con forza.
Pietrificato dall’ impossibilità, seguivo la curva delle sue cosce con lo sguardo, immaginavo di passare la mano lungo la schiena morbida, di affondare il viso nella conca invitante del collo e respirarne il profumo. Mi vedevo sdraiato accanto a lei, dormire abbracciandola stretta, svegliarmi al mattino con lo stupore di averla accanto, bella, come l’avevo lasciata prima di perdermi nel sonno.
In un attimo, diventò il mio tormento. Abitava ogni mio pensiero, a qualsiasi ora del giorno. Dov’era? – mi domandavo – Forse qualcun altro la cingeva fra le braccia e tirava a sé il suo corpo vellutato stringendola come se non volesse lasciarla più andare? – Quel pensiero mi faceva impazzire. Lei doveva essere mia, mia e di nessun altro.
Non potevo far altro che guardarla. Cercavo di avvicinarmi il più possibile a lei, sussultando ogni volta che pareva volesse concedere ad altri il privilegio di farsi abbracciare e portare via, lontano, in un’altra città, in un’altra vita dove l’immaginavo chiusa in una casa sconosciuta che non avrei saputo davvero raggiungere.
Avrei voluto urlare fuori quel crampo che serrava lo stomaco e mi impediva di mangiare o di muovermi quando pensavo a lei o quando, peggio, l’avevo davanti e non potevo toccarla. Avrei voluto urlare, ma non lo facevo e restavo a fissarla, immobile e muto.
Consacravo i miei giorni al momento in cui l’avrei rivista. La trama delle mie notti, benché intessuta della speranza d’averla, veniva squarciata da lampi improvvisi di cupa disperazione, la stessa di chi realizza che il suo più grande desiderio non verrà mai appagato poiché finanche gli dei gli sono avversi.
In certi momenti arrivavo a pensare che sarebbe stato meglio non averla mai vista perché, adesso, vivere senza di lei sembrava impossibile, irreale, una sorta d’allucinazione che non riuscivo a scrollarmi di dosso.
Le avrei scritto poesie, se avessi potuto, ma la penna rimaneva chiusa e il quaderno mi fissava arcigno, bianco, arido e irritante; per reprimere la voglia di stracciarlo dovevo chiuderlo e gettarlo sotto al letto.
Avrei parlato di lei per ore, come se evocare l’immagine sua bastasse a placare l’arsura. Avrei parlato di lei per ore, cercando nelle parole un incantesimo che accorciasse lo spazio che ci divideva, che accelerasse il tempo e mi spingesse avanti, avanti e avanti verso l’attimo in cui avrei potuto toccarla. Se mai quell’attimo fosse arrivato.
Nessuno avrebbe creduto, allora, ed io per primo ne ero stupito, che una simile passione potesse agitare la mia giovane carne ed io sapevo, io per primo, che avrebbero riso e sbeffeggiato il mio tormento se solo me ne fosse sfuggita notizia.
Tutto ciò che io avevo lo spendevo per lei. Fra il sudore e le risate di quelli che mi si accalcavano intorno, quando veniva il mio turno stavo diritto e impassibile. Un fiume di monete usciva tintinnante dalle mie tasche e scorreva verso lei che ne era la foce, l’estuario, l’ingordo mare stesso che inghiottiva tutta la mia ricchezza. Avrei dato tutto ciò che possedevo per averla, i risparmi di una vita per avvicinarla, ma più passavano i giorni, più appariva chiaro che per conquistarla non servivano ricchezze, bensì un’abilità che cominciavo a disperare di possedere.

16 thoughts on “Lei era bellissima”

  1. Vogliate perdonarmi, ma questo è il mio primo editing!

    Emanuela, il tuo modo di scrivere è molto ricco e scorrevole. Credo tuttavia che la descrizione del tormento sia un po’ ripetitiva. Per quanto mi riguarda, potrei andare avanti a leggere anche 20 pagine così ben interiorizzate, perché, ripeto, hai una bellissima penna, ma alcuni paragrafi sembrano riprendere il già detto in quelli precedenti, ma con parole diverse. Forse era intenzionale, per raffigurare visualmente il ripetersi di queste onde di tormento?
    Faccio un copia ed incolla in grassetto per quanto riguarda le correzioni per quelle parti del lessico che, a mio modestissimo, e forse anche errato parere, potrebbero suonare meglio.

    Lei era bellissima, di Emanuela Fontana – Parte Prima

    Lei era bellissima.
    Vederla e volerla era stato un tutt’uno. Non credevo esistesse una creatura capace di far battere il mio cuore tanto forte al solo guardarla. Stavo lì, incapace di muovermi, mentre la gente passava e mi urtava. Stavo lì, inchiodato, con gli occhi sul suo corpo sinuoso, a cercare di domare la fiera speranza che m’aveva invaso e che urlava al mio sangue che lei doveva essere mia, che non sarebbe potuto essere altrimenti.
    Il corpo vibrava, preparandosi all’azione. Onde di coraggio sostenevano il mio animo, spingendolo alla conquista, ma una fastidiosa rassegnazione intralciava la loro corsa: in fondo, che potevo fare io ? Non l’avrei mai raggiunta; così rimanevo immobile a guardarla e serravo i pugni con forza.
    Pietrificato dall’ impossibilità, seguivo la curva delle sue cosce con lo sguardo, immaginavo di passare la mano lungo la schiena morbida, di affondare il viso nella conca invitante del collo e respirarne il profumo. Mi vedevo sdraiato accanto a lei, dormire abbracciandola stretta, svegliarmi al mattino con lo stupore di averla accanto, bella, come l’avevo lasciata prima di perdermi nel sonno.
    In un attimo, diventò il mio tormento. Abitava ogni mio pensiero, a qualsiasi ora del giorno. Dov’era? – mi domandavo – Forse qualcun altro la cingeva fra le braccia e tirava a sé il suo corpo vellutato, come se non volesse lasciarla più andare? – Quel pensiero mi faceva impazzire. Lei doveva essere mia, mia e di nessun altro.
    Non potevo far altro che guardarla. Cercavo di avvicinarmi il più possibile a lei, sussultando ogni volta che pareva volesse concedere ad altri il privilegio di farsi abbracciare e portare via, lontano, in un’altra città, in un’altra vita, dove l’immaginavo chiusa in una casa sconosciuta che non avrei saputo raggiungere.
    Avrei voluto urlare fuori quel crampo che serrava lo stomaco e mi impediva di mangiare o di muovermi quando pensavo a lei o quando, peggio ancora, l’avevo davanti e non potevo toccarla. Avrei voluto urlare, ma non lo facevo e restavo a fissarla, immobile e muto.
    Consacravo i miei giorni al momento in cui l’avrei rivista. La trama delle mie notti, benché intessuta della speranza d’averla, veniva squarciata da lampi improvvisi di cupa disperazione, la stessa di chi realizza che il suo più grande desiderio non verrà mai appagato (poiché finanche) gli dei gli sono avversi.
    In certi momenti arrivavo a pensare che sarebbe stato meglio non averla mai vista perché, adesso, vivere senza di lei sembrava impossibile, irreale, una sorta d’allucinazione che non riuscivo a scrollarmi di dosso.
    Le avrei scritto poesie, se avessi potuto, ma la penna rimaneva chiusa e il quaderno mi fissava arcigno, bianco, arido e irritante. Per reprimere la voglia di stracciarlo dovevo chiuderlo e gettarlo sotto al letto.
    Avrei parlato di lei per ore, come se evocare l’immagine sua bastasse a placare l’arsura (la mia arsura?). Avrei parlato di lei per ore, cercando nelle parole un incantesimo che accorciasse lo spazio che ci divideva, che accelerasse il tempo e mi spingesse avanti, avanti e avanti verso l’attimo in cui avrei potuto toccarla. Se mai quell’attimo fosse arrivato.
    Nessuno avrebbe creduto, allora, ed io per primo ne ero stupito, che una simile passione potesse agitare la mia giovane carne ed io sapevo, io per primo, che avrebbero riso e sbeffeggiato il mio tormento se solo me ne fosse sfuggita notizia.
    Tutto ciò che io avevo lo spendevo per lei. Fra il sudore e le risate di quelli che mi si accalcavano intorno, quando veniva il mio turno stavo diritto e impassibile. Un fiume di monete usciva tintinnante dalle mie tasche e scorreva verso lei che ne era la foce, l’estuario, l’ingordo mare stesso che inghiottiva tutta la mia ricchezza. Avrei dato tutto ciò che possedevo per averla, i risparmi di una vita per avvicinarla, ma più passavano i giorni, più appariva chiaro che per conquistarla non servivano ricchezze, bensì un’abilità che cominciavo a disperare di possedere.

    Felicia

  2. Come non detto, vedo che il grassetto non si riesce a vederlo! Le parti sono poche, spero tu riesca ad individuarle!

  3. Un incipit inizialmente avvincente e incalzante, non c’è dubbio, ma concordo con Felicia che sia un po’ troppo ripetitivo: “stavo inchiodato, pietrificato, stavo lì, incapace di muovermi” sono alcune espressioni di altrettante frasi che ribadiscono più o meno lo stesso concetto,
    E ancora. …” forse qualcuno avrebbe voluto abbracciarla, .. il privilegio di farsi abbracciare.. la casa sconosciuta che non avrei saputo davvero raggiungere…” Avrei voluto urlare fuori quel crampo( non userei il verbo urlare, parlando di crampo)” avrei voluto urlare ma non lo facevo e restavo a fissarla, immobile e muto.
    Mi sembra che un incipit promettente, perda un po’ di verve in questo susseguirsi di ripetizioni.
    L’uso del corsivo: a me non piace perché prima di tutto è una distonia visiva che può infastidire, soprattutto quando si tratta di una sola parola, secondariamente io dare l’enfasi costruendo la frase in modo diverso o usando un rafforzativo.
    In conclusione:io sfronderei molto l’incipit cercando di descrivere le emozioni del protagonista nei punti salienti evitando ripetizioni di concetti che, sebbene molto ben descritti, allungano il brodo ma non aggiungono nulla al racconto, toglierei il corsivo ed entrerei nella storia, incatenando così il lettore.

  4. Ale, il corsivo non l’ho usato qui, Felicia ha provato ad usarlo per evidenziare le sue correzioni, ma su questi post non viene fuori. 🙂

    Sono d’accordo, è verboso e ridondante, infatti lo sto sfrondando senza pietà da qualche settimana (un paio di frasi alla volta, finirò fra qualche anno!).

    Intanto, grazie per i commenti.

  5. @Ale: forse ti riferivi a l’ “io” del secondo paragrafo?

    @Felicia: grazie delle osservazioni, le confronterò anche col testo che sto correggendo (da settimane).

  6. @Ale: ‘doveva’ lo uniformo graficamente, mentre il piccolo ‘io’ lo lascio così perchè lo preferisco diverso. A me un uso moderato del corsivo piace, l’ho trovato in diversi romanzi e non mi ha infastidito. Mi infastidisce invece un uso scorretto o smoderato della punteggiatura, ma immagino che non sia un mistero, ormai 😉
    A ognuno le sue idiosincrasie.
    Buona domenica!

  7. Mi pare di capire che non ci sia molta azione in questo racconto ma che sia proprio la storia di un’ossessione,di un tormento interiore, quindi trovo funzionali le ripetizioni che rendono questa fissazione maniacale.sfronderei ma non eccessivamente,anche se sarebbe opportuno avere un’idea del racconto nella sua totalità per giustificare l’alleggerimento.
    Quanto all’uso del corsivo a piccole dosi non mi dispiace.
    Comunque Ema la tua scrittura è ricca e gradevole.

  8. L’ispirazione viene quando si mettono i gomiti sul tavolo,il culo sulla sedia e si comincia a sudare. Scegli un tema, un’idea e spremiti le meningi fin quando ti fanno male.Questa si chiama ispirazione.

    C. Zafon, “IL GIOCO DELL’ANGELO”

  9. Scusate il ritardo per questo mio intervento, ma sono stato preso dai quiz di scuola guida.

    Ora provero a farti un commento:
    Questo pezzo esprime il sentimento che un uomo prova per una donna.
    Il tentativo “poetico e un pò torcibudella”
    mi ha preso all’inizio, poi ho avuto un pò di difficoltà per i motivi già detti nei commenti prima del mio.
    Ma mi dispiace deludere le tue speranze che un uomo possa ragionare così.
    Per conto mio spero che almeno questo uomo un pò sfigato cambi attegiamento nei confronti di questa ragazza e un vero colpo di scena in questo racconto sarebbe che lui alla fine riesce a trombarla.
    Perdona la durezza del mio commento ma noi uomini ragioniamo con ritmi molto più veloci del tipo: – Come va con tua moglie?
    – Taci, taci sono due mesi che non spurgo.
    E se un uomo avesse visto una donna così bella il suo primo pensiero si sarebbe posato sul suo fondoschiena e sul suo seno con l’unico pensiero di portarsela a letto magari mascherando la sua poesia in un mazzo di fiori.
    Per il resto direi hai una buona padronanza nella scrittura.

  10. Figurati, Adriano! Il commento era ironico e a sostegno della tua tesi. L’immagine del pescatore che prende i pesci (le donne) con le più svariate strategie difficilmente mi risulta poetica. Era per far capire che, gira e rigira, anche l’amor cortese un solo scopo aveva.
    Attendiamo l’evoluzione della storia di Emanuela!

  11. Andrea Cappellano
    De Amore
    versione romana

    “Amore è detto da ’amo’ verbo, il quale significa pigliare o essere preso, però che quelli ch’ama si è preso di catene d’amore e altrui vuole prendere col suo amo. Come il pescadore che con sua esca e con suo amo s’ingegna di prendere i pesci, e così è quelli ch’è preso d’amore: con sue arti si pena di trarre a ssé altrui, e mette tutta sua possa di ffare di dui cuori uno, o, fatti, di mantenere in uno volere.”

  12. Grazie a tutti per i commenti e consiglio di leggere anche l’ultimo pezzo per avere un quadro completo della … situazione. 🙂
    Ciao buona domenica!

    P.S. @Kitty: la citazione di Zafon l’ho stampata e attaccata sullo specchio del bagno. Ad eterno memento 😉

  13. E’ chiaro che un uomo puo’ ragionare come nel racconto di Emanuela.
    Ma non voletemene se dico che normalmente gli uomini non sono cosi’ poetici.
    Non era mia intenzione togliere la speranza alle donne.
    Felicia, perdonami se ti sono parso volgare

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