Undici solitudini

Con questa recensione/analisi, Alessandra Castelli ci accompagna alla scoperta delle Undici solitudini di Richard Yates. Un ottimo spunto per spingerci a confrontarci – senza sconti – sul nostro rapporto con la letteratura, con il mondo e con la vita. Buona lettura.

di Alessandra Castelli

Del nuovo ragazzo era stato detto a Miss Price soltanto che aveva passato gran parte dei suoi anni in un orfanotrofio, e che gli “zii” piuttosto anziani con cui viveva ora erano in realtà genitori adottivi, pagati dall’ente pubblico di assistenza della città di New York. Un’ insegnante meno appassionata e con minor fantasia avrebbe cercato di sapere qualcosa di più, ma Miss Price si accontentò. Era bastato quel rapido profilo a suscitare in lei uno spirito missionario che cominciò a trasparirle dagli occhi, chiaro come l’amore, fin dalla prima mattina in cui il ragazzo si presentò in classe. [… ]

Questo è l’incipit del primo degli undici racconti di Richard Yates inseriti nel suo libro Undici solitudini.

Un libro che, a mio avviso, rappresenta un vero gioiello. Gli undici personaggi, colti nel momento in cui la solitudine li spinge a reagire, tentano di cambiare il corso della propria esistenza per riuscire a uscire da quel limbo nel quale sono costretti. Insignificanti e poco visibili agli occhi del mondo, i personaggi – molto complessi, per la verità – prendono vita per noi lettori poco prima del conflitto, imprigionandoci nelle vicende che si compiranno nelle successive, poche, pagine.

Questa scelta narrativa permette a Yates di realizzare delle situazioni nelle quali l’autore, il lettore e i personaggi diventano talmente compenetrati tra loro da poter dialogare lungo tutto il libro, senza mai perdersi di vista.

I protagonisti dei racconti sono, per certi versi, persone realmente esistite: Richard Yates ebbe un’infanzia infelice, una vita affettiva disastrosa e una fine dolorosa e proprio per questi motivi, ebbe a disposizione un vasto campionario di modelli di persone sofferenti a cui attingere. Persone reali che lui trasformò, dando vita a personaggi credibili e soprattutto, universali. Partendo dal sé, Yates parla del tutto, costringendoci a riflettere su quanto e su come, sia possibile cambiare il proprio destino.

In Revolutionary Road, Yates scrive di sé stesso: “[…] i problemi fisici e mentali, il suo carattere testardo e irascibile (arriverà a minacciare di morte Gordon Lish, il futuro editor di Raymond Carver che ha rifiutato un suo manoscritto) gli renderanno impossibile, anche in seguito, mantenere una relazione stabile e metteranno a dura prova l’amicizia di quelli che gli sono rimasti accanto. […]“ Una dichiarazione onesta, non c’è che dire, della propria incapacità a relazionarsi con il mondo che lui riporterà in toto nei propri personaggi, svincolandoli dal tempo e dallo spazio. E nonostante “rubi” dal proprio passato, Yates non “accende” mai i toni della propria scrittura, nemmeno in circostanze violente o drammatiche, prediligendo, invece, uno stile lineare, pacato e falsamente distaccato, quasi volesse lasciare a noi lettori il compito di provare le emozioni che riteniamo più adeguate al contesto.

I protagonisti, delineati con brevi e sapienti pennellate sparse in tutto il racconto, odiosi e caratterialmente instabili, suscitano comunque la nostra immediata curiosità e anche se non ci piacciono, spesso riusciamo persino ad amarli. Paolo Cognetti nella prefazione del libro afferma: “[ …] Yates non prova compassione per i suoi personaggi, e questo forse è l’ostacolo maggiore per il lettore. I protagonisti di Carver, a cui viene ogni tanto accostato, sono altrettanto miseri e meschini ma raccontati con amore, ed è facile innamorarcene a nostra volta. Yates, invece, è uno che ti tratta male. Di solito comincia presentandoti un personaggio emarginato, vittima di esclusione sociale o affettiva, pieno di speranze e voglia di cambiamento. Ti lascia immedesimare con lui quel tanto che basta, e ti offre anche un nemico su cui riversare la rabbia sua e tua. [… ] Alla fine del racconto non sappiamo bene cosa provare. Per usare una parola cara a Yates, ci sentiamo soprattutto disturbati. […]

Come lettrice, e solo in questa veste, non condivido in pieno l’analisi di Cognetti poiché ritengo il disprezzo di Yates per i suoi personaggi solo apparente. L’autore, infatti, traccia un profilo psicologico meticoloso per ogni protagonista in modo da rendere chiaro il punto di partenza dello stesso in funzione della conclusione della storia. Se è vero, forse, che non sono i “personaggi commossi” di Carver, quelli di Yates rappresentano però il desiderio di salvezza. Salvezza che dovrebbe essere possibile per tutti; in teoria. Nella pratica, invece, ci sono i personaggi comprimari. Sono questi ultimi che, come dice Cognetti, impediscono tale riscatto ricacciando i protagonisti indietro nelle rispettive solitudini.

Meno stringato di Carver [del Carver pubblicato. NdR], ma quasi preludio a Carver stesso, Yates scolpisce il personaggio qua e là, con apparente noncuranza, per poi narrare il conflitto e la risoluzione. Nascono in questo modo undici racconti sapidi e pieni di vita, scritti con una semplicità che incanta e una “leggerezza” che stupisce. Gustatevi la tecnica narrativa, la semplicità delle vicende – che sottendono, però, a un intreccio complesso e “inaspettato” – e la stupenda presentazione dei personaggi. Un esempio per tutti: Sobel, protagonista del racconto Contro i pescicani, lo vediamo lì, seduto davanti a noi, mentre scrive l’Articolo della “propria svolta”. Lo osserviamo, mettendo a fuoco i suoi gesti, mentre cerca di diventare “qualcuno”, nascondendo, persino a sé stesso, l’ineluttabilità del proprio fallimento.

L’autore ci accompagna per mano facendoci scoprire una misera umanità sommessa – quell’umanità che non fa cronaca – e ci svela i piccoli anfratti delle loro esistenze. Anfratti che, a volte, nascondono caverne vere e proprie. Alla fine, però, Yates ride. Ride di noi, dei suoi lettori, che, avvinghiati a lui e alle storie dei vari personaggi, dobbiamo scegliere chi diventare: i protagonisti o i comprimari.

Yates sosteneva di dover tutto il proprio talento allo studio di due grandi libri: Il grande Gatsby e Madame Bovary. E proprio di Fritzgerald, Yates ammirò, come lui stesso afferma nell’extra di Revolutionary Road, “[…] la grande tecnica narrativa che fa perlomeno sperare di riuscire a capirne l’architettura. […] Ogni riga di dialogo in Gatsby rivela su chi parla più di quanto il personaggio stesso vuole rivelare. L’autore […] fa più volte in modo di cogliere tutti i suoi personaggi, sia pure in maniera impercettibile, proprio nell’attimo in cui si tradiscono.” Abilità tecnica riconosciuta a Fritzgerald che Yates fa propria, superando, a mio avviso, lo stesso maestro ispiratore.

Agli scriventi MacAdemici – ma vale in generale – consiglierei di leggere questo libro perché è un esempio molto efficace di ciò che andiamo imparando nella scuola quando affrontiamo le lezioni sul personaggio. Ritroveremo così, nero su bianco, molti esempi di ciò che Fabio ci insegna da anni e che noi, faticosamente ma inesorabilmente, facciamo nostro… con sua infinita pazienza e nostro grande divertimento!

2 thoughts on “Undici solitudini”

  1. Alessandra, ho molto apprezzato il tuo contributo: chiaro, efficace ed incisivo. ho una valanga di libri in stand-by (in attesa di essere letti)per l’estate, ma mi ripropongo, con calma , di leggere questo. hai centrato l’obiettivo perchè lo scopo di una buona recensione è invogliare il lettore. ho colto tra le righe molti de gli insegnamenti macademici che hai richiamato: l’autobiografismo ammesso solo se assurge a valore universale, l’importanza di dialoghi ben costruiti,una valida tecnica narrativa.
    Grazie e ….a rileggerti
    kitty

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